Ci sono sante inquietudini pastorali. Profondamente vere. Perché bagnate e impastate di umanità. Straordinariamente belle. Perché hanno come lievito il Vangelo. Sono quelle che arrivano a rubarti perfino lunghi pezzi di sonno nella notte. Sono generate da “piccole” voci che parlano all’intelletto, al cuore, alla coscienza. Anche agli occhi e alle orecchie.
Inquietudini che ti esortano a non essere una guida cieca, un educatore sordo che non conosca l’autorevolezza della compassione. A non lasciarti schiacciare dalla paura di guardare in faccia i cambiamenti del tempo presente. Anzi di cercarli. Di ascoltarli. Di tessere con loro un dialogo i cui destinatari siamo noi tutti, i figli dell’oggi. Di questo mondo. Di questa società liquida dove corriamo il rischio di essere assunti come operai, anche a tempo indeterminato, nella fabbrica della cultura del malessere e delle passioni tristi. In quell’azienda della “non cultura” che vuole radere al suolo la Comunità, le Relazioni, il nostro essere Chiesa e la Comunicazione. Quella “non cultura” che ha confezionato infiniti lotti di produzione di “famiglie perfette”. Dove però ci si sente corpi estranei, vuoti. Lacerati dall’oppressione, dal disagio. Vite in cerca della libertà che si lascia stringere e imprigionare dalle mani “inaridite” dell’edonismo e del nichilismo.
A tal proposito, penso a Riccardo. Da giorni tra le mura del carcere minorile Beccaria di Milano. Lo ricordo, raggiunto dalle “piccole” voci delle mie sante inquietudini che si fanno “sudata” preghiera. Lo ricordo come figlio di Dio. Di questo tempo. Della Chiesa. Lo ricordo come il mio fratello. Con lui penso alla mamma Daniela. Al papà Fabio. Al fratellino Lorenzo. Questi ultimi li ricordo come cittadini del Cielo.
Parte del mondo mediatico li sta triturando, “strapazzando”. Vuole ridurli a figli della cronaca. E non della storia. Del gossip macabro. Che fa impennare lo share e gli indici di ascolto. Con la caccia ai migliori psichiatri, psicologi e criminologi chiamati giustamente a trovare, alla luce delle loro competenze, cause e moventi sull’“evento” e sul gesto omicida. Ma quando l’analisi diventa morbosamente e squallidamente cronachismo, come una fiction con i suoi attori principali e secondari, aleggia il rischio di trovarsi di fronte ad una ennesima e lacerante spettacolarizzazione del dolore. Dove a fare da regia su tutto vi è l’onda oceanica dell’emotività. Quella che riesce perfino a saziare il nostro bisogno di essere soggetti “pensanti”. Ma non basta. Che ci allontana dall’uso dell’intelligenza della fede la cui fonte principale resta la Parola di Dio. Quella proclamata dagli amboni. Da ascoltare non solo tra le mura delle nostre chiese, ma per le vie della storia. Delle storie di vita. Anche di Riccardo, Fabio, Lorenzo e Daniela.
Chi sono loro per noi? Forse ha provato a dircelo il profeta Isaia proprio domenica scorsa, quando parla “degli smarriti di cuore”. Come lo sono tanti figli di questo tempo. Come tanti di noi. Smarrito di cuore è colui che, pur essendo circondato da moglie, marito, figli, amici e conoscenti, vive l’amara esperienza dell’analfabetismo affettivo. Anche nei suoi spazi vitali resta un perfetto sconosciuto. Un anonimo. La sua quotidianità conosce il regime sociale del mutismo relazionale. È colui che non si sente amato da Dio e dal suo prossimo più prossimo. Il suo cuore si è smarrito in una sorta di “stare pandemico” che celebra solo l’esaltazione di se stesso. La macchina della sua vita si è fermata nel tunnel buio del vittimismo esistenziale.
Senza la presunzione di analisi esaustive, proviamo a leggere con le luci dell’intelligenza della fede la vita dei tanti “Riccardo” di “quest’ora”. La loro vite hanno bisogno di essere abbracciate dal coraggio generato dalla consolazione della fede. Ai nostri figli non riusciamo più ad annunciare, di fronte alla ricerca di un senso da dare alla loro vita, che Dio è venuto a salvarli. A salvarci. Col suo Amore: un Amore “coraggioso”. Con cui il Padre “esalta” il Figlio e tutti i suoi figli.
Oggi celebriamo la festa dell’esaltazione della Croce. Nei nostri paesi è diventata la festa del Crocifisso. Una scelta che, per certi aspetti, le consegna un taglio un po’ più devozionale e meno esistenziale. Che tiene a bada e anestetizza la profezia della Croce.
Ma come parlarne ai nostri figli? Non è per nulla facile. Esaltazione e croce è un binomio difficile da unire. Sembra “pane” per mistici. Partiamo dai testimoni. Oggi chi può insegnarci a celebrare con uno sguardo esistenziale, e non devozionale, la festa dell’esaltazione della Croce? Penso ai nonni di Riccardo. Non li conosco. Non so neanche se hanno alle spalle un cammino di fede cristiana. So soltanto che il loro nipote ha ucciso brutalmente i loro figli e il nipotino. Eppure, di fronte alla sua richiesta di incontrarli la loro risposta è stata immediata. Ha dato voce all’Amore e al perdono. «Noi ci saremo. Non lo abbandoneremo». Questi nonni oggi si fanno maestri di vita. Catechisti dell’Amore che si innalza. Che vince il male. Che esalta la Vita. Che fa risorgere.
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