Care cittadine, cari cittadini della Gerusalemme celeste, care defunte e cari defunti tutti,
alle prime destinatarie e ai primi destinari di questa lettera scriviamo che proprio ieri, il giorno della vostra festa, vi abbiamo solennemente ricordate e ricordati. Anche se ricordarvi tutte e tutti ci è stato veramente impossibile. Siete miliardi e miliardi. Non siamo in grado di fare un preciso censimento della popolazione della vostra città. Forse perché nella metropoli dell’eternità, “governata” da Dio, nessuna cittadina e nessun cittadino è considerato semplicemente “un numero”. Da addizionare, sottrarre, moltiplicare o dividere secondo gli sporchi interessi “dell’economia della non vita”. Quella legata alla produzione e al traffico di armi. Quella che ha avviato la “silente” gara tra i potenti della terra su chi fosse il Caino più fantasioso. Inoltre, a guidarvi non c’è un governo di destra, di centro o di sinistra. Da voi mancano i palazzi con le poltrone vellutate del potere. Con i colori accesi dei loro incancellabili privilegi. Da voi non c’è la nutrita casta di onorevoli, deputati, senatori, eminenze, eccellenze, canonici, monsignori, vip. La vostra città è la sola “al mondo” dove anche la più “nobile” e “vantaggiosa” forma umana di esercizio del potere è “oscurata” dalla luce di un popolo che vive in pienezza l’essere figlie e figli di Dio. Voi tutte e tutti siete le testimoni e i testimoni invisibili in questa dimensione, eppure presenti per sempre, di quella assemblea sinodale che si ciba sui tavoli e sui banchetti della santità. Della vostra Urbe, care cittadine e cari cittadini, non conosciamo i numeri del codice di avviamento postale. Eppure, siamo certi che questa epistola vi sarà ugualmente recapitata perché la vostra Gerusalemme è l’unico luogo “dell’universo” dove i numeri non riescono a penetrare. E, mancando le cifre con i loro “paradisiaci” zeri, non c’è neanche il denaro. Niente portafogli, assegni, carte bancomat, carte di credito, bancoposta. Niente mutui, prestiti, investimenti in borsa. Niente debiti, interessi. Possibili pizzi da pagare, bustarelle da consegnare, usurai da temere. Non c’è spazio per il malaffare. Voi conoscete solo l’economia della salvezza. Insomma, a pensarci bene, la vostra è proprio una vita da favola. Da beati e santi. Ma c’è di più. Voi tutte e tutti, in questa “altra patria”, siete diventati immortali. Quasi uguali a Dio.
Oggi dobbiamo e vogliamo commemorare anche le nostre care defunte e i nostri cari defunti. Lo facciamo con quest’unica epistola. Potremmo dire due piccioni con una fava. E per commemorarle e commemorarli dignitosamente, è d’obbligo fare in modo che questa seconda parte della lettera non sia bagnata dalle salate lacrime del dolore, ma dal dolce pianto della gratitudine. Dal delicato silenzio dei passi della memoria che si fa preghiera. Oggi, pur abbracciando la vostra “sedia vuota”, vogliamo trovare nel cammino della fede quei sentieri da attraversare per essere, con voi, figlie e figli del Risorto. Ecco perché il “corpo” della nostra lettera viene unificato. Si fa preghiera rivolta alle sante, ai santi, a tutte le nostre care defunte e a tutti i nostri cari defunti, nostri angeli custodi. Siate presenti nel “corpo” della vita della nostra fede quotidiana. Siate presenti soprattutto nel cuore, nella mente e nella coscienza di chi si sente un fallito, di quanti sono arrabbiati con Dio. Di chi non sa più cosa sia la speranza. Di ogni disperato. Ricordateci che agli occhi di Dio per noi che siamo quaggiù: «Mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte».
Lo chiediamo in special modo a voi mogli e a voi mariti che nei giorni della vita su questa terra avete visto bruciare il giardino del vostro amore dalle scintille laceranti delle incomprensioni o dalle fiamme violente dell’infedeltà. A voi che, solo per amore, siete riusciti a spegnerle con le lacrime del pentimento e del perdono. A voi che avete continuato ad amarvi raccogliendo in quel vostro giardino le violette profumate e nascoste della misericordia.
Lo chiediamo anche a quelle spose e a quegli sposi che “quaggiù”, di fronte al dono della maternità e paternità, si son trovati innanzi un semaforo acceso col solo rosso fisso. A voi, che nel buio di questo dolore, avete fatto risplendere l’amore per la vita con le fiammelle del servizio di educatrici e di educatori delle figlie e dei figli non “vostri” ma che avete trattati come vostri. A voi che ci avete insegnato a gioire per quanto di bello non ci viene dato o ci viene tolto.
Lo chiediamo ancora a quanti hanno raggiunto, anche all’ultimo secondo, il capezzale di una mamma, di un papà, di un figlio, di un fratello, di un parente o di un amico per stringer loro la mano con la forza del perdono. Da dare o da ricevere. A voi che ci insegnate che si può dare respiro all’amore fino all’ultimo respiro. Lo chiediamo anche alle mamme e ai papà che “quaggiù” lo sono stati “eternamente”.
A voi che avete lasciato sulla terra i vostri figli chiamati diversamente abili. A voi genitori da 110 e lode che avete generato e cresciuto quei “piccoli” ai quali Dio non ha nascosto i misteri del Suo Regno.
Venite, cari cittadini di lassù, venite care defunte tutte e cari defunti tutti, venite ad abitare le nostre Eucarestie. A illuminarle. Perché nelle nostre Eucarestie abbiamo spento la luce dell’eternità. Quella che ha il suo sole nella sapienza del cuore che Dio ci dona insegnandoci a contare i giorni della nostra vita.
Grazie allora per il dono della vostra presenza.
La ricosciamo subito. Perché possiede il sorriso della Speranza, della Speranza eterna.
don Franco Mogavero e don Matteo Castiglione
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