Il visitatore che entra oggi nella cattedrale di Cefalù avverte un senso di smarrimento nel vedere le pareti così bianche e vuote a dispetto della ricca decorazione musiva e plastica del presbiterio.
“Sarà stata la guerra o magari il terremoto”: è il pensiero che viene subito alla mente. Molto più complesse sono le dinamiche che hanno determinato questo “tempo sospeso”: affondano infatti le loro radici in quella concezione di restauro stilistico iniziato in Francia nel 1830 con Viollet-le-Duc e perseguito in Sicilia da Giuseppe Patricolo e Francesco Valenti tra la fine del XIX secolo e il primo ventennio di quello successivo.
In quegli anni, a Cefalù, si demolivano le cappelle della navata settentrionale del duomo con l’intento di restituire, secondo la prassi del tempo, il presunto aspetto delle volumetrie normanne trascurando l’appello di Ernesto Basile che scoraggiava tale pratica1.
Negli anni ‘70 del secolo scorso, nonostante il parere contrario di studiosi del calibro di Roberto Calandra2, Cesare Brandi e Wolfgang Kröenig3, le ormai anacronistiche manomissioni ripresero con maggior forza nella navata meridionale, nel presbiterio e nell’abside della cattedrale. Andarono così distrutte le cappelle laterali, gli arredi liturgici del presbiterio, i monumenti funebri dei vescovi, la cappella delle reliquie nel diaconico e le sacrestie Aragona – Gonzaga. Stando alla visitazione regia di Angelo De Ciocchis del 1743 e all’inventario redatto dal decano Antonio Maria Musso agli inizi del XIX secolo, le cappelle della cattedrale erano cinque per lato4. Nella navata settentrionale esistevano quelle di: san Giovanni Battista, san Francesco di Paola, l’angelo custode, san Nicola, Madonna di Gibilmanna; in quella meridionale le cappelle di: santi Gioacchino e Anna, santi Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, san Giuseppe, santi Apostoli Pietro e Paolo in vinculis e sant’Agostino. In ciascuna cappella era custodita una tela o una statua che raffigurava il santo titolare; dopo le demolizioni le tele vennero traferite in episcopio e nei magazzini della cattedrale.
A guardare le foto d’epoca, custodite nell’Archivio fotografico e Fototeca Varzi, ci si rende conto di quanta bellezza sia andata irrimediabilmente perduta nell’ultimo secolo. Ciò che resta nel presbiterio della decorazione plastica, testimonia una ricercata continuità con quella musiva attraverso l’impiego di elementi decorativi, fitomorfi e architettonici su fondo dorato. Si deve al vescovo Stefano Muniera (1621-1631) un primo intervento decorativo sui contrafforti del corpo traverso con la realizzazione delle statue in stucco dei santi Pietro e Paolo e delle loro vite poste all’interno di clipei.
Nel 1644, sotto l’episcopato di Marco Antonio Gussio (1643-1650), furono stuccate da Martino Li Volsi le nicchie dei contrafforti che custodiscono il gruppo scultoreo in marmo dell’Annunciazione di Domenico Gagini5. Nel 1647 Scipione Li Volsi, fratello di Martino, iniziò la stuccatura del presbiterio: il suo intervento riguardò anche il restauro del mosaico “nel choro e titulo”6 e si protrasse poco oltre il 31 agosto 1650. Lo scultore realizzò anche, lungo le pareti del presbiterio, una teoria di santi: sant’Elena, san Cosma, san Sebastiano, san Filippo Apostolo, san Gioacchino nella parete settentrionale; santa Veronica, san Damiano, san Bartolomeo, sant’Andrea, san Giuseppe in quella meridionale.
Nell’abside, da sinistra a destra, si riconoscono le statue a stucco di santa Maria di Nazareth, santa Maria di Magdala, santa Maria di Cleofa e santa Maria di Salome. Nel registro superiore si pongono a settentrione le statue di Gedeone, Mosè, Giacobbe e Abramo; a meridione quelle di Giuda Maccabeo, Isacco, Giuseppe e Giosuè. Al contempo, tra il 1647 e il 1650, furono dipinte la volta e le pareti del presbiterio con scene bibliche e le allegorie delle virtù teologiche e teologali: Temperanza, Carità e Giustizia sulla parete settentrionale; su quella meridionale Fortezza, Speranza e Fede. Sulla volta, racchiusi in oculi dipinti, emergono le figure di Dio Padre in trono circondato dai ventiquattro vegliardi.
In cima al grande arco del presbiterio i re Salomone e David, assieme ad Adamo ed Eva, fanno da cornice allo stemma reale degli Asburgo di Spagna sorretto da due angeli. Le pitture ad affresco risultano essere state realizzate da Ignazio Bongiovanni7 e da Olivio Sozzi8.
A completare la decorazione pittorica i quattro evangelisti e i sovrani Filippo IV e Ruggero II a cavallo. Nel 1770 Francesco Sozzi realizzò le tele della Peccatrice perdonata e del Primato di san Pietro in sostituzione degli affreschi sulle pareti del presbiterio danneggiati dall’umidità dovuta all’interramento parziale dell’abside. Anche gli affreschi degli arcangeli vennero sostituiti con tele riproducenti lo stesso tema. Al posto del bassorilievo centrale in stucco della Trasfigurazione invece venne posizionato l’antico dipinto su tela, recante lo stemma di Manuel Quero Turillo (1596-1605), che prima degli interventi del Li Volsi decorava l’abside.
La decorazione a stucco dell’abside, già provata dall’umidità, fu la più colpita dagli interventi degli anni ’70 del secolo scorso come denotano ancora oggi le statue mutile delle Quattro Marie, nascoste fino a poco tempo fa da una tela di juta poi sostituita da un drappo. Prima dell’ultimo restauro era ben visibile il pietrame privato dell’intonaco con le poche tracce in negativo dell’altare maggiore.
L’Ufficio Beni Culturali Ecclesiali, in stretta collaborazione con l’Ufficio Tecnico ed Edilizia di Culto e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo, si è adoperato per il recupero e ricollocazione in situ delle tele attuando così quanto auspicato dal vescovo di Cefalù, S.E. Mons. Giuseppe Marciante, sin dall’inizio del suo ministero episcopale. L’intervento si è svolto in due fasi: la prima, con l’ausilio della Piacenti spa, ha collocato nel registro superiore le quattro tele con i privilegi dei re normanni e svevi; la seconda quelle che erano poste sulle pareti laterali del presbiterio e nell’abside. Si rende ora necessario salvaguardare anche le tele delle distrutte cappelle laterali ricollocandole nella loro ultima posizione.
La fruizione pubblica sarà dunque l’occasione per rendere possibile un progetto di restauro di quelle opere che, danneggiate dall’incuria e dal tempo, verranno restituite al culto contribuendo così a mantenere la memoria e la continuità storica e culturale della Chiesa cefaludense. In tal modo si potrà davvero compiere l’adagio medievale: “Siamo come nani sulle spalle di giganti così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.
Valerio Di Vico – Salvatore Varzi
Bibliografia
- E. Basile, Relazione tecnico-artistica dei ristauri al Duomo e al Chiostro di Cefalù, 22 dicembre 1908, manoscritto conservato presso la famiglia Giardina. ↩︎
- R. Calandra, I restauri del Duomo di Cefalù, documentario Rai Regione Siciliana – Rai Teche, 9 settembre 1982.
URL: http://www.regionesicilia.rai.it/dl/sicilia/video/ContentItem-3b20f0aa-8f11-40c2-9517-e794c17881be.html ↩︎ - M. Lombardo, Insigni studiosi denunciano. Duomo di Cefalù: questi rimedi sono peggiori del male, L’Ora, 2 giugno 1977. ↩︎
- A. M. Musso, Storia del vescovado e delle prerogative del ricchissimo Tempio di Cefalù (manoscritto non ultimato), conservato presso l’Archivio Storico Mandralisca, p. 102. ↩︎
- G. Mendola, Domenico Gagini a Palermo. I documenti, in Studi di Scultura – età moderna e contemporanea, 2021, anno III – n. 3. ↩︎
- N. Marino – R. Termotto, Cefalù e le Madonie: Contributi di storia dell’arte tra XVII e XVIII secolo, Cefalù, 1996, p. 15, n. 1. ↩︎
- N. Marino – R. Termotto, Op. cit, p. 18, n. 18. ↩︎
- N. Marino – R. Termotto, Op. cit, p. 18, n. 20. ↩︎
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