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Basta chiamarli “borghi”, i nostri sono paesi e città, NON pezzi da museo

Basta chiamarli “borghi”, i nostri sono paesi e città, NON pezzi da museo

Adesso, onestamente, siamo un po’ stanchi.

La trovata pubblicitaria ha sicuramente funzionato: c’è stato un momento in cui probabilmente aveva senso, ma ora le cose sono cambiate. Perché chiamare “borgo” un paese o una cittadina? Chiamereste qualcuno che conoscete con un altro nome? Ovviamente no.
In questi anni, infatti, i comuni del nostro territorio sono stati associati alla parola “borgo”, che, per carità, se usata correttamente e con cognizione di causa, ha un suo significato. Ma i nostri sono paesi, città e comuni. Il borgo è infatti visto come qualcosa di piccolo, accogliente, silenzioso e quasi privo di abitanti, che vivono a contatto con la natura, tra cielo e terra. Ebbene, tutti i paesi che rientrano nel nostro territorio vivono quotidianamente questa realtà senza però essere chiamati “borghi”. Sono centri abitati che pullulano di vita, mantengono vive le tradizioni unendole all’innovazione e si sforzano di trovare soluzioni per dare un futuro alle nuove generazioni che hanno avuto la fortuna (sì, la fortuna) di nascere nei nostri meravigliosi paesi.

Il vescovo Giuseppe ha fatto sua questa battaglia contro lo spopolamento dei centri dell’intero territorio diocesano. Molti giovani, infatti, preoccupati per il loro futuro, specialmente in quelle che vengono denominate “aree interne”, decidono di lasciare (nel 99% dei casi con tristezza nel cuore) la propria famiglia e il proprio paese per andare altrove in cerca di un futuro sicuro e stabile. Questo lo abbiamo sentito dire tante, troppe volte, e sicuramente questa “musealizzazione” in atto non fa bene al tessuto sociale, soprattutto alla fascia giovanile. Ci sono soluzioni? Certo che sì, ma deve esserci anche la buona volontà e il coraggio di intraprendere strade sicure e rette, che portano alla risoluzione della crisi del modello urbano.

Il vescovo Giuseppe, già nel suo discorso in occasione del SS Salvatore a Cefalù, parlando proprio del problema dei “borghi”, aveva dichiarato: “Cefalù ha tutte le potenzialità per diventare una città. Non mi piace che venga indicata come ‘borgo’, anzi penso che sia arrivato il momento di non definire più i nostri paesi delle Madonie come borghi. E qui faccio mio il pensiero di uno studioso, il Prof. Vito Teti, già ordinario di Antropologia culturale all’Università della Calabria, il quale afferma (ed è vero, perché lo constatiamo) che i borghi con un’economia residuale ci hanno portato allo spopolamento e, di conseguenza, alla perdita di tanti servizi essenziali per la vita di una comunità, come la scuola, la farmacia, i trasporti locali, le vie di comunicazione, la connessione a Internet, il servizio sanitario di prossimità. Cefalù deve essere l’esempio di un paese che cresce culturalmente, socialmente, urbanisticamente, e che ha tutte le potenzialità per diventare il capoluogo delle Madonie. Non credere a questo significa impoverire Cefalù e i comuni delle aree interne. Ecco perché saluto e incoraggio l’arrivo di una sede universitaria di medicina: un investimento ‘profetico’, perché guarda con occhi sapienti al futuro delle nostre comunità e delle nostre vite”. Proprio in questi giorni, monsignor Marciante, incontrando tutta la popolazione ospedaliera del “Madonna dell’Alto”, ha sottolineato questo necessario cambio di rotta, elogiando il lavoro dei “camici gialli”, i volontari che portano gioia e sollievo spirituale ai degenti, constatando l’ingresso di diversi giovani nella “squadra 2024/2025”.

Le soluzioni sono quelle di investire in agricoltura, ridandole il suo valore autentico, restituire dignità all’allevamento, promuovere l’artigianato, incentivare il modello delle cooperative e delle microimprese, attuare politiche differenziate, migliorare i trasporti, la viabilità, la scuola e la sanità. Insomma, tutte soluzioni che il vescovo Giuseppe ha proposto più volte e che, fin dal suo insediamento, ha messo in campo per contrastare i tristi fenomeni di cui sopra. Adesso è giunto il tempo di avere “energie e creatività per produrre iniziative e avviare processi che pongano un freno allo spopolamento, alla inarrestabile desertificazione dei nostri Comuni. Percorsi che riescano a smorzare l’emorragia dei cervelli di quell’esercito di giovani talentuosi, costretti a investire altrove, anche oltre oceano, la bellezza dei loro carismi”.

Volere e potere, sicuramente. Ma devono essere le nostre coscienze a cambiare, a prendere posizione sul fatto che i nostri paesi sono scrigni di tesori che devono e meritano di vivere, perché custodi e testimoni della cultura dell’incontro e dell’unità, capaci di innovare senza far sembrare straordinario ciò che è ordinario.

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